La partecipazione
Ricerca di una sua definizione non inquinata
di Pietro M. Toesca

Ambiguità della definizione
La parola partecipazione va oggi, come si suol dire, per la maggiore. Il suo relativo concetto, necessariamente vago per lasciare spazio alla... partecipazione definitoria, è diventato un cavallo di battaglia adatto ad ogni intenzione di vera alternativa, ma anche, ahimé, di ingannevole, gattopardesco, cambiamento che lascia le cose come si trovano.
La partecipazione può essere un aggiustamento democratico, un metodo per condividere, dall’alto, la responsabilità di scelte previamente attrezzate di consenso, autorizzate cioè da un’adesione raccolta chissà come; una via più lunga, accettata per generosità lungimirante, o per necessità, per raggiungere i medesimi risultati che la decisione di un potere concentrato potrebbe far raggiungere più rapidamente e senza tanti passaggi. E sta all’astuzia di chi dirige davvero le operazioni il far sì che il prendere parte (il prendersi una parte, appunto, di responsabilità) consolidi il risultato permettendogli di p resentarlo come condiviso: vox populi formalizzata addirittura in istituzioni apposite, che volete di più?
Altro è se la partecipazione deriva dalla coscienza dell’essere parte, e dal bisogno, dalla ‘pretesa’, di vedersi riconosciuta questa condizione reale come un diritto, il cui esercizio cambia la struttura stessa dell’attività politica.
Non soltanto un metodo per raggiungere un fine eterogeneo, sia pure la risoluzione di problemi riguardanti tutti, cioè la comunità; ma un modo di realizzare la comunità, un fine già in se stesso, la vera edizione della politica, che non è l’esercizio del potere concentrato, autorizzato magari da deleghe sempre alientanti se non precisamente definite nella loro strumentalità, ma è l’attività comunitaria suprema, il colloquio dello stare insieme e per stare insieme, per trasformare in comunità l’insieme di rapporti ‘disordinati’ tra diversi, cioè non globali, ma variamente categoriali (lavoro, apprendimento, commercio, insomma i diversi elementi dell’abitare comune).

Possesso e appartenenza
Le due versioni della partecipazione si distinguono dunque per la direzione che le costituisce. L’una, discendente, assume la forma del possesso di un bene, da spartire sul modello economico, cioè di una giustizia concepita come uno scambio alla pari, secondo la memorabile dizione di Trasimaco (nel primo libro della ‘Repubblica’ di Platone) del dare a ciascuno il suo, restituendogli cioè quello che egli ha dato con una misura esattamente quantitativa, con la conseguenza che chi più ha e più dà più deve ricevere, con una penalizzazione assoluta di chi non avendo niente non può dare niente e dunque non ha diritto a ricevere niente. L’intenzione del possesso e la sua gentile concessione da parte di chi ne è già titolare, qualifica la partecipazione come un allargamento della logica del potere, senza per altro che la condizione dei ‘partecipanti’ esca dalla soggezione: rimane la delega, rimane l’esclusività della decisione, camuffata dietro un dibattito più o meno previo considerato come una consultazione, tutt’al più come un sondaggio di opinioni, di cui tener conto con tutta l’astuzia della strumentalizzazione.
Altro è la partecipazione come esercizio dell’appartenenza, che si basa su un dato storico/geografico, l’abitare in comune un luogo, su su fino alla comune presenza nel mondo. Essa è la sufficiente ma cogente motivazione dell’opera di coinvolgimento in una reciprocità generale che obbliga appunto chi più ha (a cominciare dal sapere) a più dare in modo da mettere in grado tutti di avere per scambiare, se si vuole, alla pari, realizzando la giustizia come impegno alla creazione di eguaglianza, mediante la partecipazione attiva alla costruzione di un soggetto collettivo la cui attività, cioè la politica, dipende interamente dalla reciprocità dinamica di tutti i soggetti individuali. La partecipazione dunque come attività e non come consulenza all’attività dei politici di professione.

Il paradosso: dall’incapacità alla capacità
Questa versione della partecipazione è certamente di difficile attuazione e si scontra con un paradosso: l’autogestione comunitaria presume una relativa capacità dei singoli soggetti, al limite addirittura di coloro che appaiono totalmente incapaci. E’ l’esercizio concreto dell’autogestione che crea la condizione dello sviluppo e addirittura della scoperta attiva, per alcuni, della capacità più o meno nascosta. Così ‘la città fa liberi’. La forma di questa attività non è quella economica, ma quella pedagogica, diciamo della coeducazione.
Attraverso la partecipazione i problemi posti non vengono risolti più o meno rapidamente, secondo una tecnicità raffinata dal contributo di tutti o almeno di molti, e quindi meglio o peggio secondo una valutazione che privilegia la soluzione ‘comunque’; i problemi vengono risolti, o anche no se se ne constata la malposizione, passandoli al vaglio della giustizia, del valore per l’uomo che è in tutti, poiché tutti sono messi in grado (e questa è la funzione del dialogo che esplicita le strutture significative delle diverse possibilità), di esprimere, e prima di tutto, di percepire il loro bisogno secondo una graduatoria che ha come metro il valore dell’uomo come essere che prende coscienza della propria realtà, cioè di ciò che lo fa uomo. Cosicché la partecipazione diventa un elemento importante, determinante, di questa formazione, e senza di essa l’uomo è impedito non solo ad esprimersi pienamente, ma ad essere realmente.

Partecipazione e democrazia
Per questo il concetto di partecipazione è davvero un aggiornamento del concetto di democrazia; ma non nel senso che sia un ennesimo strumento inventato per sopperire alla crisi di un concetto, e di una prassi che, con il tempo, ha perduto i suoi connotati originari che erano (e si parla in particolare della democrazia moderna, a carattere universalistico) non di puro metodo ma di una vera concezione della politica che oggi è costretta a presentarsi come alternativa a quella prassi deteriorata, ma che è nata, sia anticamente che modernamente, come l’autentico modo di stare insieme fecondamente.
La partecipazione, che si basa sulla convinzione della comune appartenenza all’umanità, la fa emergere attivamente e si presenta come lo strumento per la sua attivazione, e quindi come criterio fondamentale per le scelte comuni. Ecco il bene, il fine della partecipazione, cioè dell’attività politica: mettere in grado tutti di riconoscersi e di agire, con gli strumenti adatti, da uomini. Il prendere parte è dunque la conseguenza dell’essere parte; la partecipazione è l’esercizio di questo essere parte, che istituisce, insieme ad altri partecipanti, una realtà nuova, entro la quale soltanto la dialettica dare/avere funziona correttamente, realizzando via via una reciprocità dinamica grazie alla quale tutti sono messi in grado di essere alla pari, cioè effettivamente partecipi. La gentile concessione è l’ennesimo strumento per consolidare il potere, realizzando una apparenza che ricorda tanto l’espediente delle navi borboniche napoletane in cui nell’occasione di qualche visita importante, veniva impartito l’ordine ai marinai di ‘fare moina’, cioè di andare avanti e indietro, sopra e sotto, fingendosi indaffarati e produttivamente attivi. La crisi attuale della democrazia non si risolve con tale espediente, che mistifica addirittura il vero problema, quello di ridare ‘voce in capitolo’ a tutti coloro che facendo parte di una società, sono membri di diritto di quel capitolo.

Il compito della politica
Compito principale della politica come autogestione comunitaria è quello di provvedersi di tutti gli strumenti, materiali e spirituali (culturali) che le permettano di esercitarsi. In altre parole il soggetto collettivo è reale quando fa sì che i soggetti singoli che lo compongono possano agire realmente come soggetti, grazie ad una interazione, cioè ad un dialogo che li rende reciprocamente tali. La politica è una attività di soggettivizzazione, cioè di costituzione della soggettività, reciproca: il soggetto collettivo per i soggetti singoli e viceversa. La crisi della democrazia denunzia l’assenza di questa dialettica, e dunque il reale venir meno di una società di uguali. Non esiste oggi, proprio nell’Occidente democratico, un soggetto politico se non mistificato nell’identificazione di alcuni soggetti, necessariamente pochi, che detengono ogni potere. Questi pochi possono anche allargarsi, come è accaduto proprio all’origine della politica dell’antica Grecia, soprattutto in Atene, ma finché qualcuno (e non pochi: gli schiavi, le donne, allora; paradossalmente tutti meno pochissimi, oggi) è escluso o sistematicamente o per mancanza effettiva di strumenti per esercitare diritti pur riconosciuti astrattamente, il soggetto collettivo è in realtà un soggetto privilegiato. E la grande conquista moderna della universalizzazione dei diritti è vanificata. Certo non è la pura eliminazione del diverso come nei regimi totalitari, che restringono l’umanità ad una razza o all’obbedienza ad una ideologia, ma, nell’attuale regime democratico, coloro che non sono iscritti a qualche lista di potere, o anche tutti (salvo pochissimi) al di fuori del ristretto potere che è loro dato dalla competenza professionale o dalla funzione diciamo così amministrativa, vanno ad aggiungersi, come diversi, a coloro che non appartengono, in certo modo per natura, al mondo del privilegio, vedi oggi soprattutto gli ‘extracomunitari’. L’orrenda definizione, che fa passare un connotato (quello della comunità) che si pretende non più fondato su razza o nazionalità ma sulla consapevolezza della comune umanità che unisce coloro che di questo valore sarebbero gli scopritori e i portatori (diciamo la civiltà occidentale: poiché in sostanza sono fuori non gli extraeuropei, altrimenti sarebbero considerati extracomunitari gli americani del nord e gli australiani), fa passare questo connotato a elemento di definizione privilegiata ed esclusiva, e la democrazia diventa valore da esportarsi, alla fin fine con la forza per vincere la resistenza di coloro che non hanno ancora ‘scoperto’ quel valore. E tutto questo invece di considerare realmente tutta l’umanità come in diritto di interloquire.

Il possesso esclusivo
In verità, la ragione autentica di questa esclusione, il mondo dei diversi come Terzo, è il risultato della trasformazione di una concezione politica in ideologica nel senso pienamente deteriore del termine: la copertura ‘sovrastrutturale’ di un meccanismo i cui elementi dinamici sono in realtà economici, appartengono alla logica pura del dare / avere che gerarchizza secondo misura quantitativa i possessori di qualcosa, dando loro un potere che va dal niente (i nullatenenti) al tutto (i ricchissimi). Partecipazione come possesso dunque, e conseguentemente come spartizione, e non come appartenenza. Gli extracomunitari, in una comunità che non si dà altre regole che quelle che afferiscono al potere e al suo possesso, anche parziale, sono tutti colori che non hanno alcun potere. Per acquisirlo devono mettersi in regola, con la fidejussione di un comunitario e con un contratto di lavoro; in buona sostanza con un possesso che li autorizzi a possedere, e quindi a partecipare. Cioè a prender parte: ché l’introduzione al privilegio si ferma lì, poiché la vera partecipazione, l’ appartenenza come voce in capitolo, è riservata comunque a coloro che quel possesso detengono in una misura dominante. Non è l’ingresso nella polis, che non c’è: essa è sostituita dalla logica del potere che è necessariamente, come si diceva, ristretto ai pochi, poiché richiede i molti su cui dominare. Gli esclusi da questa partecipazione politica sono in realtà esclusi da ogni disponibilità ‘umana’, e arrancano per tutta la vita per sopravvivere, al di fuori di una vera partecipazione alla costruzione della storia, anch’essa riservata ai detentori del potere (del potere di fare la storia). C’è un solo canale di uscita da questa emarginazione, quello di accumulare un possesso economico che faccia poi scattare, al di là di una certa soglia, il passaggio al mondo del potere e iscriva il nuovo arrivato (una volta si diceva il parvenu) nella lista del privilegio.

L’altro mondo
In verità c’è un altro modo di uscire dall’esclusione, quello di creare un altro mondo, non fondato sul potere ma sulla partecipazione, intesa come attivazione dell’appartenenza universale, cioè della semplice consapevolezza della comune umanità. Ed è proprio ciò che fa il movimento mondiale che assume come referente dinamico condizionale il valore della pace, raccogliendo e unificando tutte le proteste, le richieste, le lotte per la soddisfazione ‘comunitaria’ di tutti i bisogni, elementari e veramente essenziali, che definiscono la condizione umana nella sua autenticità. La partecipazione, variamente coniugata, sembra essere finalmente il metodo per realizzare questo nuovo modo di relazionare l’umanità, a patto che non si riduca, come si è già osservato, a puro metodo, cioè ad un processo mistificatorio che mantiene e rafforza il potere. La differenza tra i due processi sta in questo: c’è una partecipazione strumentale, per la quale la trasformazione è tutt’al più proiettata nel futuro, e il cui approccio è comunque guidato dalle regole del modo vigente di intendere la politica: alla fine c’è sempre la delega, in bianco anche se con qualche macchia che ne condiziona lo splendore, cioè la libertà (vedi l’obbligo della trasparenza). E c’è invece una partecipazione che è già un modo diverso di intendere la politica, per cui il suo aspetto metodologico è interno al proprio consolidamento e al proprio sviluppo. La partecipazione, essa stessa, come mondo alternativo.

La Rete dei Nuovi Municipi
All’interno del grande movimento a cui si è accennato sopra, si è costituito un ‘coordinamento’ che si è dato il nome di Rete dei Nuovi Municipi, e identifica la base reale di tutta la partecipazione come nuovo processo politico in quell’area, ben definita e delimitata, in cui la relazione interumana può realizzarsi davvero con reciprocità. Questi sono i luoghi in cui l’interesse pubblico, cioè comune, appare immediatamente come interesse di tutti e quindi di ciascuno, poiché il rapporto tra privato e pubblico non passa attraverso tali e tante mediazioni da oggettivarsi in istituzioni prima alienanti, per la loro distanza, che relazionanti. In quei luoghi ben delimitati l’attività delle istituzioni può essere realmente controllata e la ‘trasparenza’ previa e non postuma.
Il senso di questa nuova realtà è però strettamente legato al suo essere all’interno del grande movimento. Ciò avviene se il dialogo costitutivo della comunità si realizza secondo l’ esercizio preciso di criteri che, derivando dalla percezione della comune umanità, possono, grazie a quella elaborazione e verifica concreta, pretendere di valere come principi di aggregazione su su fino all’eventuale costituzione di un presidio universale unitario per tutta l’umanità. Gli antichi dichiaravano accessibile ad una comunità politica reale misure di ‘associati’ molto limitate (Platone ed Aristotele parlavano di cinquemila persone). Queste condizioni non sono granché mutate oggi, nonostante gli smisurati mezzi di comunicazione che sono stati inventati; muta piuttosto, grazie a questi mezzi, la dimensione dell’attribuzione di comune umanità; ma la possibilità reale di elaborare i criteri della realizzazione rimangono legati ad una misura di reciprocità che per ogni uomo non supera cifre esercitabili perché piccole. Le vere grandi opere dell’umanità, intesa come soggetto collettivo di reali soggetti individuali, sono nate tutte nel contesto di una concretezza dialogica non dilapidabile solo finché si è mantenuta nelle misure della reciprocità esercitabile realmente dai singoli. E’ dubbio che le altre ‘grandi opere’, quelle di smisurate dimensioni (le piramidi, la muraglia cinese, le conquiste per il dominio di luoghi e di spazi) siano davvero espressione della libertà di tutti coloro che vi hanno contribuito: si pensi alle diverse forme di schiavitù, non ultima quella del lavoro alienato.

La cultura
E’ vero che questo modo di intendere la politica accentua l’aspetto culturale, rispetto a quello pratico: conta la procedura prima che il risultato. Certo lo stare insieme nel mondo pone dei problemi che debbono essere risolti, a cominciare da quelli materiali. Ma come questi non sono puramente tali, ma fanno parte della relazione sociale e come tali debbono essere impostati e risolti, così tutti i problemi che nascono dalla compresenza non possono evitare il vaglio del giudizio e della scelta, poiché questo è il modo umano di rapportarsi alle cose. Un modo riflesso, mediato dall’intelligenza e dalla volontà, e non direttamente guidato dall’istinto che è la versione animale dell’attrazione naturale fra le cose.
Questa mediazione richiede una cura che è appunto l’attività culturale. Essa è ‘naturale’ per l’uomo, è una sorta di istinto immediato che sorge dall’esperienza elementare della percezione di sé come essere razionale; di modo che il giudizio e la scelta non sono un lusso privilegiato di quegli uomini, pochi o tanti, che si sono riscattati dalla propria animalità, ma sono il modo stesso specifico dell’animalità che è la condizione dell’uomo. Per questo il rapporto tra gli uomini passa attraverso una comunicazione che si avvale certamente di mezzi di ben più ampia portata delle misure della singola corporeità: ma queste protesi debbono pur sempre fare riferimento a quel corpo che ne percepisce la ‘proprietà’, l’appartenenza che ne fa strumenti dell’attività umana, e non mondo talmente oggettivo ed autorganizzato da risolversi nella propria autoreferenzialità. Nei confronti di un mondo siffatto gli uomini sono essi piuttosto strumenti di realizzazione, e si capisce come essa possa richiedere il sacrificio di corpi ed anime, ridotti a ‘strumenti vocali’ come il buon Catone chiamava gli schiavi. Vocali certamente poiché tutto quel mondo ha origine nella parola creativa dell’uomo; ma si tratta di una voce che ha ben poco a che fare con il diritto di parlare nel capitolo.

Il concerto e le voci
Quello che importa è il concerto, dove fiati, archi e percussioni non possono più essere percepiti nella loro singolarità isolata, anzi non debbono, pena lo stridore e il disequilibrio del tutto, la sua disarmonia. Ma la particolare riscoperta moderna del valore dell’individualità non nega il valore del concerto come opera collettiva, ma sottolinea il raggiungimento di questo risultato attraverso l’attività di concertazione (altra parola a rischio!) che permette poi di cogliere il contributo personale di ogni singolo componente dell’orchestra, personalizzando l’insieme grazie alla composizione delle caratteristiche di ciascuno. E’ anche vero che il mondo moderno ha inventato l’attribuzione all’umanità come virtuale realtà collettiva, e quindi simbolicamente ma in verità apparentemente, delle opere che qualche grande, qualche persona eccezionale, eroe, scienziato, creatore di nuove realtà compie (ecco che cosa sa fare l’uomo!): e questo permette una mitizzazione alienante grazie a cui, identificandosi con l’esemplare, il singolo ‘normale’ si spoglia della sua vera, modesta o meno, personalità e si investe, per trasposizione, una sorta di transfert, di quella del suo eroe. Così si forma l’uomo massa, lo spettatore, il fan, il supporter, il sostenitore appunto anche fanatico. Ma proprio per questo si tratta, con ogni evidenza, di liberare l’individuo da tali suggestioni, restituendogli autonomia di giudizio e di scelta, che sono le condizioni autentiche della sua realtà di uomo. Bisogna rivedere dunque il rapporto fra tre concetti: umanità come idea che definisce la condizione strutturale di ciascun uomo e lo fa appartenere all’umanità, che è appunto l’insieme degli uomini, e infine l’umanità come ideale che rappresenta l’ambito dinamico dello sviluppo dell’uomo, l’utopia che fa camminare ciascuno nella direzione del proprio perf ezionamento.
E’ a questo livello di discussione e perciò di elaborazione dialogica, che la partecipazione oggi si deve qualificare, producendo una serie di convinzioni forti, a cominciare da quella del proprio valore come condizione attiva del proprio rapporto tra individualità e relazionalità di ciascun uomo, convinzioni capaci di espungere come contraddittorie tutte le versioni aggressive (la guerra infinita) di quei valori (la giustizia infinita!) che richiedono invece, per realizzarsi universalmente, una osmosi paziente, rispettosa e aperta ad ogni interpretazione dialogicamente compatibile. Questa contraddizione è patente nella pretesa di tutte le guerre di essere difensive e dunque nella ricerca attiva previa di un nemico, tanto più utile se inventato e quindi con i colori estremi di ogni invenzione. Altro è la resistenza, che discrimina però le proprie azioni secondo i gradi di effettiva incolloquiabilità dell’aggressore. Aggressione e resistenza si distinguono proprio per l’indiscriminatezza delle azioni aggressive, che oggi sono sempre più tali per l’enorme sviluppo dei mezzi di distruzione, appunto detti di massa perché non permettono di distinguere ‘nel mucchio’. La resistenza, anche armata, distingue invece il responsabile dell’aggressione e cerca di impedirgli di portare a termine la distruzione progettata (esemplare è stata la resistenza contro il nazismo), lasciando fuori gli inermi non responsabili. Certo oggi è facile assumere la logica di coloro da cui ci si vuole difendere, passando così dalla resistenza al terrorismo. Perciò chi aggredisce si carica anche della responsabilità di questo passaggio che egli produce, e universalizza la propria logica distruttiva in una catastrofe a cui contribuiscono, alla pari e a catena, azione e reazione. C’è stato forse un periodo storico in cui, grazie ad una certa formalizzazione internazionale, lo scontro era soprattutto tra eserciti ed avveniva (più o meno, in verità) all’interno di regole che ne limitavano in qualche modo i danni. Ma in realtà anche allora lo spirito della conquista lasciava mano libera ai peggiori coinvolgimenti illimitati. Ad ogni modo l’industria bellica, nell’ultimo secolo, ha reso impossibile ogni distinzione (si parla del 90% di vittime civili nei conflitti moderni), il che rende indiscutibile il rifiuto della guerra ‘senza se e senza ma’. La ‘comunità’ internazionale, o mondiale che sia, non sarà mai tale finché non avrà la forza, e prima di tutto la volontà, di impedire tali aggressioni e, al limite, di aiutare la resistenza ad esse.

Il ‘mettersi dalla parte di’
Anche per questa strada, dunque, si conferma che a tutti i livelli il criterio ‘sostenibile’ di relazione interumana è quello che permette agli uomini di ‘fare comunità’. La difesa dei deboli rientra in questa logica, e questo aggiunge un ulteriore significato alla parola partecipazione, cioè il ‘mettersi dalla parte di’ coloro che ne hanno bisogno, che non ce la fanno da soli. E’ in qualche modo il rovesciamento di prospettiva che compie il buon samaritano evangelico, che non solo considera suo prossimo il povero ferito abbandonato sul ciglio della strada, ma si fa lui stesso suo prossimo caricandosi delle sue difficoltà (in primo luogo del costo delle sue cure) per soccorrerlo.
Così il ‘mettersi dalla parte di’ produce una partecipazione alla vita e a tutto ciò che essa offre, a cominciare dalla capacità di parlare e quindi, per contaminazione buona, di contribuire alla creazione di una logica del dialogo, senza illusioni e quindi con perseverante determinazione, ma senza pregiudizi, cioè senza la fretta e furia dell’impazienza sfiduciata.

La non violenza
Una delle scoperte che si vanno sempre più diffondendo nel mondo dopo il tragico secolo ventesimo, è quella della non violenza, e come metodo e come orizzonte di valore. Come al solito il termine è strapazzato dagli equivoci, soprattutto volontari di chi ha paura che venendo meno, nella considerazione generale, la logica della forza, vengano di conseguenza meno i privilegi che essa a loro, i forti, riserva. La non violenza non è passiva accettazione della violenza dei forti, e quindi abbandono dei deboli alla loro prevaricazione; è la convinzione che il clima non violento, ricercato in tutti i modi e a tutti i costi e a tutti i livelli e circostanze, permette di creare una nuova forza, alternativa, capace di progettare e realizzare un mondo diverso; questa forza è quella della partecipazione che, crescendo via via, costituisce già un mondo alternativo, una realtà intangibile dalla tentazione del passaggio di logica (dalla resistenza/difesa all’aggressività reazionaria), sia pure con tutti i rischi che l’ambiguità che ogni convinzione umana, e in particolare ogni posizione politica, porta con sé.
Il non violento denunzia ogni azione violenta che si compie sotto l’ammanto di qualche ideale. Il suo referente non è la legge che, per lo più, si serve della forza indiscriminata (le forze dell’ordine: quale ordine?), ma è la giustizia che è tutta e sempre da cercare e così da difendere battendosi per essa. La giustizia si distingue dalla legge, cioè dall’ordine costituito che, pur essendo a volte il risultato di una appassionata ricerca del bene comune, è vanificato spesso in questa sua intenzione dalla interpretazione interessata e faziosa di chi se ne serve per far trionfare il proprio potere. In una società fondata sul potere concentrato la legge e l’ordine sono inquinati dal servizio che essi vi prestano, violando così la giustizia e capovolgendola in una istituzione autoritaria e identificandola con la volontà di chi comanda.

Il processo partecipativo
Sarà mai possibile una società interamente fondata sulla partecipazione, la cui organizzazione cioè coincida con la partecipazione? E’ certamente possibile un processo attraverso il quale la partecipazione osmoticamente crescente cerca strumenti istituzionali flessibili, controllabili, continuamente contestabili se necessario, se cioè tendono a trasformarsi in poteri, riducendo la partecipazione da dialogo determinante, cioè da autentica attività, a chiacchiera di copertura, ad apparenza che lascia libero di agire il più ‘realistico’, per l’ennesima volta ricostituito, modo di intendere la politica, come esercizio del potere di alcuni, più informati, più capaci, più provveduti, più forti, più furbi. Ad una società libera, in cui ciascun socio è aiutato esplicitamente (per scopo dichiarato e perseguito) ad essere libero e dunque a partecipare alla realizzazione della libertà di tutti, si sostituisce una società della dipendenza poiché, essendo concepita la libertà di ciascuno come la pura franchigia della sua più o meno capace, possente, operatività, senza alcuna cura della libertà di tutti come reciprocità dinamica generale, prevale necessariamente, ‘liberamente’, chi ha più filo da torcere. In termini economici questa è la libertà del monopolio, il paradossale fondamento del monopolio.
Ma non bisognerà essere, almeno un poco, realisti, pensare di poter modificare il tiro delle istituzioni vigenti, senza la pretesa di cambiarle radicalmente poiché esse, già così come sono, oltre che come essere richieste dall’ignoranza e passività delle masse (la non partecipazione) e imposte dall’effettiva forza di chi ne dispone, rispondono ad una vera esigenza di fondo, strutturale, cioè al fatto che il governo di una realtà collettiva è ben diverso dall’amministrazione della soggettività individuale? Dovendo compiere una unificazione di bisogni, attitudini, opportunità, esso deve essere sintetico e perciò, volere o no, concentrare in sé potere e poteri.
In realtà, è vero che l’attività politica riguarda un ambito che è sostanzialmente diverso non solo da quello dell’azione di ogni singolo soggetto, ma addirittura da quell’intreccio collettivo di azioni che costituiscono la vita sociale non organizzata politicamente (economia, cultura, relazionalità sociale), poiché l’azione politica presuma un’oggettivazione degli interessi comuni derivante dal loro distacco dalla logica del puro rapporto tra singoli individui. Ma è pur vero che quel soggetto collettivo è tale, cioè soggetto, solo se risulta dall’attivazione dell’intelligenza e della volontà dei singoli soggetti che lo costituiscono, per cui, a dispetto della separazione machiavellica tra etica e politica che ha compiuto ormai il suo tempo storico, quello della necessità di sganciare la politica da un’etica religiosa incarnatasi nella relativa istituzione, i criteri del comportamento giusto, cioè dell’etica, del soggetto collettivo non possono essere diversi o addirittura contrari a quelli che giustificano, cioè fanno giusto, ogni singolo soggetto. Nell’uno e nell’altro caso è la giustizia il referente che qualifica umanamente le loro azioni, e non il puro interesse egoistico, che prevalendo oggi per la economizzazione della società, si riflette addirittura sul soggetto individuale, proponendogli un’etica dell’arricchimento, del successo, dell’arrivismo competitivo. Talché la partecipazione può ridursi all’appropriazione personale generalizzata degli utili: la politica come società per azioni o, al massimo, come cooperativa ma non senza fini di lucro.

La ricerca della giustizia
Si ritorna così all’esperienza greca della ricerca della giustizia come principio della politica, sconcertati ormai dalla memoria degli ultimi secoli che, alla appassionata declinazione di quel principio hanno visto contrapporsi una serie inaudita di feroci distruzioni dove la giustizia era l’alibi ideologico dell’imposizione di volontà di dominio, e quindi l’attribuzione riservata di quel principio ad una classe o ad un gruppo (per esempio una razza) di eletti detentori del potere. Ma oggi non è affatto finita: la ‘giustizia infinita, o senza limiti’ di cui parla Bush è l’imposizione bella e buona di questo privilegio; ha del giustiziare, e non del rendere giustizia. I ricercatori della giustizia hanno del bel filo da torcere, devono prima di tutto smontare questa distorsione linguistica, questo esiziale equivoco della fondamentale parola politica. Il realismo politico, che induce ad accettare ciò che ‘è possibile’, può essere una buona soluzione terapeutica nella immediatezza della circostanza storica, ma lascia intonso, anzi ne ribadisce, consacrandolo, l’intangibilità, il sistema e la sua logica. Questo vuol dire che nella società affluente come quella odierna occidentale, che vorrebbe però per questo esportarsi universalmente, si potrà ottenere, anche strappandola con la forza, dai ricchi e dai potenti qualche concessione più o meno consistente, ma gli elementi di questa organizzazione sociale e politica rimarranno intonsi, riproducendo all’infinito le condizioni gerarchiche e variamente estranianti di una società tutt’altro che partecipativa. Se ci accontentiamo di questo e rinunziamo ad immaginare un’alternativa globale e a ricercarne i percorsi concreti di realizzazione, per timore di essere confusi con le pretese ed i fallimenti delle ideologie totalizzanti ottonovecentesche, stiamocene pure in pace, e lasciamo che lo sviluppo, in sé irreversibile, di tale prospettiva ci costringa continuamente a tamponare le ingiustizie, sempre più clamorose, che conseguono da una concezione della realtà che contiene le estremizzazioni del disequilibrio non già come semplici possibilità, ma come coerenti sviluppi di un sistema che sulla propria coerenza dinamica si fonda.

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