Giorgio Ferraresi
Destratificare Porto Alegre e usarne la ricchezza
Forme sociali e progetto emergono dal corpo vasto dei contributi di base; il Forum visto dall’interno di un workshop su "sviluppo locale e nuovo municipio".
(Carta - Almanacco, Marzo 2002)

Il valore dei contributi di base
Qualcuno di noi che ha partecipato a Porto Alegre 2, prima di decidersi ad andarci, si chiedeva: è utile affacciarsi a questo enorme evento, entrare in questo mare in ebollizione? Sì, si diceva, se si può dare qualcosa, se si ha una proposta da spendere e la si può trattare in uno spazio agibile, con qualche riduzione del “rumore di fondo”.
Si è provato allora, per quanto mi/ci riguarda, a praticare lo spazio offerto dai workshop tentando di connettersi con altri, di accorparli (erano più di 700, un numero insostenibile visto nell’insieme).
Bene, dico subito che la fatica della ricerca, scoperta, connessione è stata pesante ma ritengo proprio che quello spazio (non certo in primo piano) si sia rivelato in realtà ricco e fertile (il più fertile?) fondato com’era su mille tracciati viventi, esperienze di forme sociali di azione e di strutturazione di soggetti e su linee di progetto in campo.
Certamente lì si stava nel cuore del movimento, dentro il suo corpo vasto, nel luogo della molteplicità dei modi della rete estesa (era impressionante vederlo dispiegato a questa scala mondiale), oltre la dimensione di “movimenti sociali” più strutturati e spesso anche non rappresentato dai coordinamenti e dalle assemblee dei forum sociali locali o aggregati: quel molteplice corpo vasto che si è affacciato a Genova ed in molti altri appuntamenti importanti ma che vive vita quotidiana nei territori; il suo lavoro, la sua tela, e quindi anche il materiale di questi workshop, andrebbe riletto e strutturato in relazioni interattive per trarne progetto generale che non può essere che “a rete” (ma su ciò ritorno).

Non sto esaltando le virtù del piccolo e diffuso (che tra l’altro può regredire in un grande disordine o rumore di fondo, come dicevo, se non trova struttura di rete ed “empowerment”).
Anzi sottolineo che il WSF si è proposto anche e prima di tutto come una grande figura d’insieme:
- come espressione della vita e del volto di questo movimento: manifestazioni coinvolgenti, festa finale, cortei improvvisati, emozionante per il carico di ribellione e di speranza ed anche di bellezza che il suo insieme rivelava (le immagini sovrapposte di belle persone generose, le facce, i corpi, i canti, gli spettacoli improvvisati, in un caleidoscopio); una sfida alla solitudine ostile di individui in competizione che sperimentiamo ogni giorno;
- e come momento di crescita di un soggetto alternativo, che dopo la nascita a Porto Alegre 1, sa ora darsi posizioni generali aggregate su alcune opzioni comuni: capace di definire e proporsi di affrontare questioni e scadenze mondiali, come ad esempio quelle trattate nel documento dei “movimenti sociali” già citati (anche su questo ritorno).
Un forte sviluppo rispetto a Porto Alegre 1; ma è proprio su questo che la natura del “movimento dei movimenti”, diffusa e costruita sulle differenze, e che ora descrivevo come fenomeno manifesto nei workshop di P. Alegre, pone una questione (“politica” come si diceva una volta) di efficacia e passaggio al futuro che attraversa proprio il capire la sua natura di soggetto molteplice e non di corpo unitario tenuto assieme da una linea unitarista.

Va comunque segnalato che la struttura del Forum era articolata in più livelli, a mio parere di utilità crescente dal minimo del vertice al massimo della base.
. Al primo (per la forza delle luci della ribalta) c’erano le “conferenze” su temi generali quadro (Lavoro, Economia e solidarietà, Sostenibilità, Città e cittadinanza, Democrazia partecipativa, ecc.) cui partecipavano anche “grandi nomi” (Vandana Shiva, Peter Marcuse, Raul Pont, Naomi Klein,…) in tavole rotonde, con un taglio più ostensivo e di “spesa” che di nuova elaborazione . Non pareva potessero nascere da lì nuovi contributi rilevanti per quanto ci sia stata una grande partecipazione di massa, un po’ da stadio.
Piuttosto allo stesso livello “alto” sono stati intensi alcuni momenti degli incontri di testimonianza con figure carismatiche (Rigoberta Menchù, Noam Chomski, Leonardo Boff, Saramago, …).
. Vi era poi un secondo livello, quello delle decine di Seminari, che erano in realtà workshop più strutturati e su più giornate, che hanno svolto un ruolo simile a quello dei workshop stessi, comunque portando elaborazioni interessanti anche su temi cruciali (ricordo quello sulla “Faccia sporca del pianeta” di “Punto Rosso”, quelli sulle Acque , sul Diritti alla città, ancora su Sostenibilità e Partecipazione). Piuttosto questo poteva essere il livello della connessione e della strutturazione in temi comuni degli workshop; ma tale funzione è rimasta gravemente assente, una occasione mancata.
. Infine il livello dei workshop di cui ho già detto sopra definendolo luogo di assai difficile interpretazione ma di grande fertilità progettuale.
Vorrei ritornare su questo parola chiave: progetto; e su ciò che questo comporta e che mi permette di tornare alla questione posta della prospettiva del movimento delle differenze e del “locale”.

Progetto plurale, locale e globale, “unitarismo”
Sembra evidente che la crescita in atto del “movimento” permetta di non dire più soltanto: “un altro mondo è possibile”, ma chieda di iniziare a dire (da P. Alegre 2) “quale” altro mondo; si pone cioè il compito di esprimere progetto. La ricchezza di questo movimento consiste nel fatto che elementi di progetto si stanno già praticando (localmente prevalentemente). Lo spostamento prodotto dal “movimento dei movimenti” è proprio questo: molte pratiche (anche parziali) di progetto e forme di azione “altre” (cioè non riducibili al mercato/pensiero unico) sono in campo; intrecciate anche a percorsi teorici e di ricerca radicali e aperti alla sperimentazione. E pongono l’esigenza di un progetto a rete per affrontare le “reti lunghe” del mercato globale.
Ciò che è in atto, e potenzialmente ancora più estensibile, è rappresentabile come “relazione tra differenze” (progetti locali, difesa dei mondi di vita, culture che lottano per non soccombere, progetti di valorizzazioni di territori e risorse sommerse dalla dimensione mondiale del mercato). La produzione è incorporata e diffusa in questi territori che non sono più, o non sono mai stati, dominati dalla organizzazione unitaria della fabbrica fordista.
E persino ovvio allora sostenere , ma spesso lo si dimentica, che il progetto a rete è assai diverso da una “narrazione unitaria”, da un pensiero unificato di tradizione novecentesca.
Si tratta qui di costruire “nodi” della rete di progetto, per temi “chiave”, condivisi ma non identici, e di proporre forme della rete.
La “diversità” è il fondamento di queste esperienze e di questa prospettiva in atto.
L’originalità e la potenzialità ulteriore, il valore aggiunto, sta anche nel compito del connettere i percorsi di molti soggetti soli, “non strutturati” che richiedono disperatamente relazione ma rifiutano la “riduzione ad uno”. Un grande lavoro di inclusione nella speranza comune di soggetti che rimangono se stessi. Lì sembra essere la radice di una ulteriore fertilità del movimento.
Credo ora di avere spiegato meglio l’interesse che dovrebbe essere dedicato ai molti materiali diffusi colti negli workshop ed alle esperienze di costruzione di relazioni attorno ad alcuni temi di ricerca comuni; su sostenibilità, sviluppo locale, reti di locali, valorizzazione dell’ambiente e di nuove economie non distruttive, altri indicatori di sviluppo, alternative alle economie eterodirette, potenziamento dei soggetti locali, democratizzazione radicale delle istituzioni “bottom oriented”.

Un documento unitario di principi e molti materiali di progetto; è possibile una contaminazione fertile?
Riprendo la forma di racconto/interpretazione di ciò che è stato (e potrebbe essere in prospettiva) P. Alegre e accenno, a proposito di quanto ora detto, alla mia partecipazione come ascoltatore alla penultima delle riunioni internazionale dei “movimenti sociali” (sindacati di base e no, organizzazioni contadine, nuovi movimenti come Attac, altre stutture) costruttrice di quella conclusiva che ha dato luogo al documento di tali movimenti ora già ben noto; è forse meno noto che non c’è un documento finale dell’intero World Social Forum, anche se quello cui mi riferisco costituisce un punto di riferimento molto importante. Partecipavo come puro ascoltatore perché il workshop cui avevo lavorato a tempo pieno sino a poco prima stava in un’altra dimensione con la quale lì non ci si curava proprio di interagire.
Ebbene, venendo dalla molteplicità degli impulsi del mio lavoro nei workshop (forse “viziato” da questo punto di vista) ho sentito proporre (certamente con qualche incomprensione per le diverse lingue tradotte in sequenza) un testo base che tradiva un approccio molto da “terza internazionale”, teso ad una analisi generale dello stato di cose, alla enunciazione di principi ed orientamenti di fondo, alla definizione di alcune linee di risposta ed alla proposta di una serie di scadenze unitarie di movimento su molte questioni. Un documento senz’altro intenso, eticamente forte ed anche con una buona capacità di definizione di problemi e di possibili riposte; ma appunto “di linea”.
Ad esempio il tema rilevante della guerra in atto e della natura terroristica dei fatti dell’11settembre e della guerra terroristica di Bush (serissimo tema , tema discriminante, drammatico) ha preso lì e poi nella riunione conclusiva, mi è stato detto, un grandissimo tempo proprio perché vi era una “vis definitoria” che incombeva sulla necessità di dare indirizzo univoco unitario.
Più in generale comunque era fortissimo appunto l’approccio “unitarista” (almeno inizialmente).
E’ interessante notare che poi quasi tutti gli interventi ad emendamento, sempre stando alla mia modesta interpretazione, sono stati di natura “differenzialista”, espressi dalle culture e dalle economie dei campesinos, da situazioni di emarginazione sociale e di soppressione di risorse territoriali e ambientali, da forme di lotta di lavoratori specifiche e nuove, da portatori di temi dell’identità delle culture e della difesa della vita.
Ebbene il documento che ne è uscito risente ancora nella struttura generale della impostazione che ho detto ma è molto più ricco e denso di riferimenti a temi e obbiettivi articolati e influenzati dalle differenze.
Anche così comunque un documento del genere, che per molti altri versi ha una notevole importanza ed è denso di senso e di impegno antiliberista e per la pace, non rappresenta l’articolazione ricca del social forum: ripropone la logica delle grandi scadenze unitarie, non riguarda la priorità di altri tipi di presenze e di mobilitazioni “nei territori” e rivela una radicale carenza di progettualità (forme e contenuti articolati dell’azione in rapporto alle sperimentazioni in corso) al di là dei principi e della macro definizione delle battaglie da fare (e salvo alcune indicazioni di fondo come la Tobin tax).
Dai lavori dei workshop e dai seminari si poteva accendere una contaminazione progettuale o si tratta di due diverse interpretazioni divergenti del come sviluppare le azioni ed esprimere una complessa soggettività?

Vorrei ora, per non stare nel vago di questa questione, fare un esempio di cosa abbiamo trattato in termini di proposta di progetto in un Workshop (quello a cui ho lavorato) e di come abbiamo provato a costruire relazioni; sottolineando che lì si discuteva con un approccio molto diverso ma di questioni di altrettanto rilevante importanza sia sostantivamente che in termini di processi di azione: i temi dell’ecosviluppo autosostenibile (come ho già detto anticipando) e della radicalizzazione della democrazia nelle municipalità: si trattava , lo ricordo, di temi costitutivi dell’appuntamento di P. Alegre, che si è sviluppato non a caso in rapporto alla iniziativa di esperienze brasiliane (della stessa città di P. Alegre) su partecipazione, democrazia di base e altro sviluppo urbano.

Un proposta da un workshop
Il workshop di cui si tratta aveva per titolo “Sviluppo locale autosostenibile: il ruolo e i compiti delle nuove municipalità e la valorizzazione delle reti sociali di attori locali per una globalizzazione dal basso”. E’ stato proposto dai Laboratori di Progettazione Ecologica dell’Università di Firenze (LAPEI, coord. Alberto Magnaghi) e del Politecnico di Milano (LPE, coord. Giorgio Ferraresi) e presentato a P. Alegre dallo stesso Ferraresi, da Andrea Calori e da Giovanni Allegretti.
Il Workshop proponeva una “Carta del nuovo municipio” elaborata da un largo gruppo di studiosi della rete di ricerca “territorialista” che proponeva anche il workshop e presentava già una vasto arco di adesioni in Italia, essendo basata su molte esperienze di progetti di ecosviluppo locale e di partecipazione ed interazione tra attori sociali ed istituzioni locali, attorno a progetti territoriali (parchi, bacini fluviali, interventi di quartiere e su sistemi più vasti), in Toscana, in Lombardia (su queste ultime esperienze è stata distribuita una nota durante il workshsop), in altre regioni.
Si è ricercata l’adesione in particolare alla Carta da parte di amministratori locali perché la sperimentazione ha teso in ogni caso a proporre un nuovo rapporto tra empowernment dei soggetti sociali e democratizzazione delle istituzioni, tra democrazia diretta e messa in discussione della autonomia della democrazia rappresentativa (da qui il tema del municipalismo).
Cerco di non essere troppo descrittivo dei contenuti della “Carta” perché una sua illustrazione e discussione e una presentazione di casi è già stata proposta su questa rivista (oltre che su “il Manifesto” ed in altre sedi) appena prima e durante P.Alegre: “Carta-almanacco” e n.4 2002 (contributo di Magnaghi), nota sui casi e nel sito (contributo mio con altri).
Piuttosto provo a sintetizzare i temi di fondo posti dalla “Carta”in termini di progetto e costruzione di soggetto e di relazione tra soggetti, di cui si tratta in questo contesto; aggiungendo alcune note su come si sono spesi questi temi a P.Alegre.
1) La centralità della strategia dello sviluppo locale è stata posta come tema di fondo alla discussione generale: come progetto di alternativa strutturale alla globalizzazione neoliberista. Contro la quale si tratta (lo si è esaminato in molti casi) di valorizzare identità culturali, economiche e sociali di diversi territori del mondo che ora vengono usati e consumati dai nuovi modi di produzione e che vanno invece riprodotte nel rapporto tra radici e innovazione.
I soggetti della società locale sono i protagonisti necessari di questi progetti di sviluppo; lo sviluppo locale non può che essere autosostenibile, basarsi cioè sulle proprie energie interne, su una “self reliance” e su una rete di locali cooperante e non gerarchica (multietnicità, scambio solidale tra diversità e tra diverse produzioni). Autosostenibilità e apertura interlocale.
2) La partecipazione non può non riguardare, radicalmente, la costruzione di scenari condivisi su questo ordine di alternative di sviluppo che usualmente si generano sulla base del conflitto; impariamo dal bilancio partecipativo brasiliano per quanto ci insegna (noi siamo sottosviluppati in tal senso) ma poniamo anche questioni ulteriori di costruzione di nuovi patti tra capitale sociale e istituzioni, non accettando la relazione previlegiata tra istituzione e mercato unico.
3) Se questi elementi di altro sviluppo e partecipazione si esprimono essenzialmente nel locale e nelle reti di locali (l’esperienza ci sta insegnando questo) va posta la questione di una nuova democrazia nelle istituzioni locali; negando, come sopra si è detto, l’autonomia della politica delegata e costruendo nuovi patti e statuti di municipalità; municipalità che non sono “l’ente locale” ma nuove relazioni tra istituzione e abitanti/produttori espresse attraverso la trattazione di alternative di sviluppo. Le istituzioni locali hanno però in ciò un grande ruolo che nasce comunque dalla legittimazione della rappresentanza in base alla sua capacità di occuparsi, realmente ed in termini non subordinati, di produzione, cultura e qualità di vita nei territori.

In sintesi mi pare questo il senso di quanto detto ma mi pare anche significativo il modo adottato per dirlo a P. Alegre: discutendo nel workshop e altrove su materiali, casi, esperienze e teorie correlate.
E si è tentato, nella pratica possibile, di sperimentare quella esigenza più volte sottolineata di connettere, correlare la necessaria molteplicità di esperienze e culture.
A P. Alegre abbiamo ripetuto il workshop/oficina due volte con diversi interlocutori per sovrabbondanza di interesse; una seconda volta da soli ed una prima volta con la rete francese di “Democratizzare radicalmente la democrazia”, più prossima alla sperimentazione europea del bilancio partecipativo; uno scambio di grande utilità per il futuro.
Abbiamo poi discusso (prima e durante P. Alegre) con il gruppo che ha proposto il tema dei “nuovi indicatori di sviluppo” e che partecipa alla rete Lilliput.
Si è speso inoltre la proposta della “Carta” nella conferenza sulla “Democrazia partecipativa”, allegandola agli atti.
Soprattutto si è cercato di interferire ad ogni livello con gli amministratori locali, sia nel forum parallelo apposito, sia direttamente nel workshop nel quale gli amministratori locali si ponevano come delegati o partecipanti diretti al Forum principale ( due dei sindaci partecipanti e provenienti dalla Brianza orientale presso Milano erano per esempio delegati di LPE). Le regioni di fondo di questo coinvolgimento le ho già espresse sia per quanto riguarda i progetti in corso che li vedono già coinvolti, sia in ordine alla provocazione di una proposta di costruzione di nuova democrazia.
Nel primo caso tuttavia (forum parallelo, più “togato” e più “passerella”) gli amministratori, in quanto invitati direttamente dal sindaco di P.Alegre (e quindi comunque chiamati a confrontarsi con quella forte posizione e sperimentazione), potevano anche non sentirsi vincolati alle opzioni del Social Forum ed esprimersi a volte anche su posizioni politiche assai distanti dalle scelte antiliberiste. Pur tuttavia anche lì il documento della “Carta” è stato speso, e nella relazione conclusiva della presidente Mercedes Bresso (provincia di Torino) è stato richiamata la “Carta” come documento rilevante di riferimento (anche se la risoluzione finale di quel forum appare deludente).
Ma nel secondo caso (nei workshop) si è trattato di una chiamata ad una discussione diretta più esplicita ed impegnativa che probabilmente (faremo di tutto perché ciò avvenga al ritorno in Italia) porterà frutti di consapevolezza delle questioni radicali in gioco. E innescherà una nuova fase di confronto, di conflitto o di avanzamento nelle esperienze di democrazia e nelle scelte dello sviluppo.

Una piccola nota finale a margine: ci è parso sempre giusto denunciare e sbeffeggiare l’opportunismo di amministratori e di parlamentari anche della “sinistra” che danno adesioni “una tantum” ai principi di Porto Alegre, razzolando quotidianamente assai male (bellicisti, neoliberisti ben più che a parole).
Ma ci chiediamo se non si possa fare assai di più che esprimere questa indignazione “ad escludendum”: vivere cioè l’etica delle responsabilità, cercando di spostare politiche sulla base di nuove pratiche (anche senza giuramenti di conversione) e di spostare o contaminare idee (forse, in prospettiva) producendo egemonia anche culturale del “nuovo mondo possibile”.
Noi che abbiamo avanzato la proposta di una “carta del nuovo municipio” pensiamo che la relazione tra la rivendicazione universale della democrazia rappresentativa e la pratica della democrazia diretta dei nuovi soggetti sia una risorsa da conquistare ed un passaggio nodale necessario. Allora probabilmente i processi ed i confronti che coinvolgono gli eletti nei termini da noi praticati in queste esperienze ed in questo forum di P. Alegre costituiscono una via ulteriore, meno difensiva, più attiva e più appropriata alla natura di un movimento sociale complesso che pur esprime forti connotazioni e scelte radicali di liberazione. Si chiederà conto di coerenze quando sarà necessario.
In fondo a Porto Alegre siamo stati ospitati non da Che Guevara ma solo da un buon sindaco che ha aperto una buona esperienza ricca di frutti possibili.

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