Par condicio
È lite aspra, fra le alte cariche dello Stato, sulla data di entrata in vigore di un principio da tutti vituperato ma mai - prima d'ora - apertamente criticato, quello che con un veterologismo un po' azzardato chiamiamo la par condicio; il rinnovato protagonismo televisivo del nostro premier riporta sulle prime pagine dei giornali e delle coscienze rovelli che sembravano almeno sopiti, concetti come conflitto d'interessi, democraticità del servizio pubblico, indipendenza ed equità dell'informazione. Ma quello che forse fa più riflettere, in questo prevedibile bailamme, non è la sfrontatezza con cui il gaffeur ha afferrato il telecomando, sbattendo in faccia a tutti come questa democrazia sia prima di tutto un rapporto di forza; è la convinzione - questa sì - da tutti condivisa che basti occupare il teleschermo più della concorrenza per far cambiare alla gente modo di pensare, percezione del mondo e inclinazione al voto. Se ci si pensa, questa considerazione ha qualcosa di agghiacciante: come fossero tanti topolini da laboratorio, si assume ovunque che gli italiani, se appena sottoposti ad una serie sufficientemente lunga di stimolazioni (tele)visive concordi e reiterate, saranno indotti da chissà quale innato meccanismo associativo a seguire ciecamente il soggetto di quelle stimolazioni - senza mai applicare in questo processo un minimo di attitudine riflessiva, di spirito analitico, di capacità di discernimento.
Dobbiamo essere grati ai paladini della par condicio, per meriti invero più estetici che politici: voler limitare l'incontinenza del teatrino che da anni la Destra ci ammannisce è senza dubbio un fine condivisibile. Dovremmo però forse, qualche volta, anche contestare l'assunzione su cui il loro pur giusto argomento si regge: che la politica sia essenzialmente una questione di marketing, e che i suoi giochi si disputino soprattutto sul campo artefatto e lontano delle arene mediatiche, dove le uniche quantità valutabili, una volta sostituito l'indice di gradimento con lo share, sono la durata e la frequenza dei passaggi - nella rappresentazione della realtà misera e distorta dei pubblicitari, per cui la presenza vale già come consenso. Esiste pure un altro modo di fare politica, quello di cui i cittadini non sono soltanto spettatori ma protagonisti, e in cui non si misurano imponenti spostamenti di massa, ma i piccoli movimenti deliberativi e argomentativi tipici della discussione sulla cosa comune che - fino a prova contraria - la politica continua ad essere e a dover essere. Se nel mondo estraniato della telepolitica possiamo soltanto scegliere a chi intestare la delega, in questo campo - il cui livello canonico è il governo di prossimità - cominciano ad apparire contenuti determinati, scelte operative non distinguibili solo attraverso il colore, e che hanno importi non intercambiabili sul presente e sul futuro, sull'orizzonte locale e su quello globale.
Cosa sta succedendo? Semplice. I topi da laboratorio hanno preso la parola, e uno sta dicendo a un suo collega "sai, ho condizionato il mio ricercatore a darmi un pezzo di formaggio ogni volta che premo quel pulsante giallo". Credo che sia a questa concezione raddrizzata della politica, poggiata - come diceva Engels - sui piedi invece che sulla testa, che dobbiamo lavorare per garantire una vera par condicio rispetto a quell'altra, in termini sia di visibilità che di operatività; e che dobbiamo utilizzare questa condizione di parità ricostruita, e non concessa, come filtro per leggere quale, delle voci che continuamente sentiamo in televisione, sia la meglio disposta ad ascoltare i nostri discorsi da bar o da circolo - e a farsene carico.
(AMC, 30 Gennaio 2006)