Una nuova cultura della città e del movimento
Paola Bonora

Mi spiace non ci sia stato spazio per il dibattito l'altra sera, ma una guardiania troppo ligia ci ha letteralmente cacciati. D'altro canto io stessa avevo chiesto ai relatori interventi che illustrassero e non solo commentassero i diversi interventi in discussione e ciò esigeva tempo.
Alla fine non siamo arrivati al punto: discutere della città e non fermarci soltanto alle infrastrutture, un metodo capovolto rispetto alla più elementare delle regole urbanistiche.
D'altro canto non è facile riprendere le fila del discorso urbanistico a Bologna. Si sono sovrapposte troppe incrostazioni e quello che era un disegno nitido si è sfuocato in uno scarabocchio illeggibile. La crescita urbana ha riflesso gli umori identitari della sua comunità e pietrificato il senso di incertezza. Specchio fedele del marasma che ha intaccato l'antico civismo. Espressione del ragionare per frammenti, per interessi difformi, alla fine dell'aver lasciato prevalere lo spontaneismo di mercato.
Un ruzzolone delle prospettive che ha ribaltato la logica fin troppo granitica che era stata alla base del pianismo degli anni '60 e '70. Un cambiamento lento ma radicale. Che mentre all'apparenza conservava certe puntigliosità del controllo burocratico e formale, dall'altro concedeva spazi a quella che in analogia con certe inclinazioni nazionali potremmo definire "urbanistica creativa".
Anche ora che qualche dibattito è ripreso l'impressione è che non sia ben chiaro quale città vogliamo. Se da una parte il catalogo delle emergenze è sempre più ampio, dall'altra le ipotesi prospettate non rispecchiano una visione ma solo soluzioni specifiche e contingenti. Non scaturite da una precisa scelta che indichi prima di tutto a quale idea di città si fa riferimento.
Perché è diverso se vogliamo una città densa, compatta o se preferiamo una città allargata, diffusa. E in ogni caso se la pensiamo monocentrica, con la vecchia univoca gravitazione sul centro storico. Oppure se scegliamo di creare più fulcri di interesse in zone decentrate della città e dell'area metropolitana da valorizzare come luoghi di aggregazione. Entrando perciò nel tema dei nuovi municipi, del loro ruolo territoriale ma anche politico e decisionale. So che si tratta di semplificazioni, ma utili per definire le prospettive di fondo.
In assenza di spazi edificabili la concezione di città densa applicata a Bologna significa necessariamente verticalizzazione. E' a quest'idea di città che si sono ispirati gli ultimi interventi e i progetti in corso di realizzazione? Oppure si tratta di cementificazioni prive di tensione estetica frutto di concertazioni. Appena fuori porta l'area Stalingrado sembra voler evocare modelli altisonanti, quantomeno nelle scelte lessicali: un "arco" da nouvelle République, quasi il sottopasso fosse la Défense e non una occupazione di spazio pubblico per usi commerciali. Per intanto la via Stalingrado, toponomastica rétro, è scomparsa nel vento delle citazioni. Mentre il verde propagandato è solo nella virtualità dei cartelloni. Ma se fosse il primo embrione di città policentrica, quali sono le identità degli altri settori urbani?
L'elenco delle occasioni mancate è lungo. Da sempre si dichiara di voler ricucire la città, di voler saldare il settore a nord della stazione e del solco ferroviario. Tuttavia rimangono e anzi si accentuano le strettoie dei ponti. Mentre la stazione, ostinatamente passante, è mal posizionata sin dai primi del '900 quando vennero abbattute le mura. Inadeguata alle future frequenze e all'inevitabile moltiplicazione della mobilità (per non parlare della nuova sede comunale). L'aver nascosto in tunnel l'alta velocità non rende meno gravoso il suo peso. Una sorta di rimozione, uno struzzo con la testa nella sabbia che opprimerà la circolazione, già ora imbottigliata in un sistema viario angusto e ineluttabile.
A questo punto importa poco "chi l'ha fatto" ma qual è il progetto per il futuro. Come ripartire. Con che disegno. E' ora di uscire dalla retorica urbanistica che da una parte dichiara e intanto realizza in tutt'altro modo. Dalla schizofrenia di regole fissate e non applicate (o aggirate).
Lamentare traffico e inquinamento diventa un esercizio retorico se non cambia la cultura della città e della mobilità. Non c'è modellistica o infrastruttura che possa reggere l'aumento continuo della circolazione di auto. Ormai dipendiamo deterministicamente dal clima: forse uno sciamano per la danza della pioggia?
Il problema è che siamo una società che ha preso gusto a stare rinchiusa in una scatola di latta. Non più solo questione di status ma di identità: l'uomo postmoderno e il suo guscio a ruote. Sono in corso ricerche (che presumo dispendiose e ben sponsorizzate) sull'auto monoposto: una guaina su misura insomma. Una sorta di corazza per meglio isolare e consumare - aria, spazio, nervi. Cose da psicologi e sociologi più che da pianificatori e trasportisti.
Se il movimento è un diritto, la liberalizzazione incontrollata della circolazione ha prodotto il suo opposto: città e territori impercorribili. Più aumentano i mezzi in circolazione più cala la velocità di spostamento: una regoletta banale banale, testimoniata da studi documentatissimi, che pare però sconosciuta al governo. A cui non basta neppure la dimostrazione dell'evidenza. Forse stanno aspettando fiduciosi che le forze animali dello spontaneismo liberista entrino in gioco: quanto tempo ci vorrà perché i cittadini rinuncino all'auto? si stanno chiedendo. Come sceglieranno di muoversi per raggiungere l'ufficio e la bottega? E se pensassero a elicotterini (monoposto naturalmente) o a strade sopra ai tetti? nuovo business e via.
Eppure le lezioni non mancano, basta saperle osservare. Paesi più civili del nostro hanno da tempo adottato sistemi di sostituzione e regolazione del traffico che consentono una qualità della vita decisamente migliore: mezzi pubblici in sede fissa puntuali e frequenti, culto della passeggiata e della bicicletta, dissuasori, regolatori.
Non è un compito semplice allo stato dei fatti, nell'anarchia arrogante dell'uomo carrozzato. E' questione di cultura, di preoccupazione civile, di amore per i cittadini.
Le esperienze straniere testimoniano che la velocità di una bicicletta in ambiente urbano con andatura normale è di 25 km orari; ossia due, tre volte la velocità di un'auto o di un bus. Un pedone riesce a coprire 2 km in dieci-quindici minuti, anch'egli in concorrenza con l'automobile. Entrambi poi non debbono aggiungere i tempi di ricerca di un parcheggio e in ogni modo, se avranno potuto percorrere itinerari dedicati, arriveranno più rilassati e sani. Dati dell'OMS attestano che una passeggiata quotidiana di 4 km riduce del 50% le probabilità di contrarre malattie cardiocircolatorie e del 30% diabete e ipertensione. Che i danni da inquinamento acustico sono in stretta correlazione con i disturbi del sonno e dell'umore.
Viviamo in una società che enfatizza gli sport, la prestanza fisica, che spende milionate in ginnastica, corsi di rilassamento e prodotti biologici e non cogliamo al balzo l'occasione per tramutare il movimento (fai movimento, fa bene!) in esercizio salutare. Per trasformare le nostre città in luoghi sani, in palestre all'aria aperta per camminare, correre, andare in bici. Magari va', anche per chiacchierare senza venire assordati e recuperare così il senso della comunità.
Una città-palestra (di idee e socialità) ricca di panchine e semmai anche di attrezzi ginnici di un percorso-vita urbano non solo simbolico. Con aria da inspirare e libertà di movimento. Ok Sirio e Rita che però vanno (forse) bene per il centro storico: e il resto della città postmedievale? Non cadiamo ancora nell'errore di occuparci solo della città vetrina trascurando le periferie: è lì che vivono le famiglie, i bambini. Ok blocchi e targhe alterne ma solo perchè possono essere utili strumenti educativi a una mobilità alternativa. Ipotizziamo complicate soluzioni senza mai pensare alla più semplice: basta con le auto (in Europa lo fanno da almeno 10 anni), mettiamole al bando, dichiariamole illegali - o almeno impacchettiamole in grosse scritte nere: lo smog uccide/ danneggia gravemente te e chi ti sta intorno / proteggi i bambini: non fare loro respirare lo smog, ecc.
---
Paola Bonora